Guido Aloise è un pittore. La buon’anima del Vasari forse, non avrebbe detto una parola di più, o una di meno. Un pittore, si, e mi pare molto, poiché lo si può dire di pochi. I suoi quadri sono come i sogni di Baudelaire, che chiedeva alle donne di essere “belle e tristi”, ma belle di una bellezza che avvince e tristi di una tristezza che soggioga, i gialli si confondono con i verdi, le figure hanno un significato che richiama secoli di passioni e di sofferenze dell’umanità intera, le composizioni sono complete e finite, proprio, “finite”, come diceva la buon’anima del Vasari. Tutto questo è molto bello. Ci rimane un dubbio. Siamo vicino ad un pittore, o a un poeta? O a un filosofo, che è anche pittore di vaglia e poeta senza saperlo?
Ettore della Giovanna, 1976
L’asse della produzione artistica di Aloise ruota – mi sembra – attorno a due poli: il ricordo struggente dell’infanzia, la sorprendente intuizione di un modo metafisico che egli bene esprime pur rimanendo ancorato al vero, alla realtà di tutti gli uomini, non di una casta, di una élite. Qualunque sia il tema, non c’è tela che lasci perplessi, che non sia intellegibile all’immediato, che non susciti emozioni pervase a volte di dolcezza poetica e di sentimentali abbandoni o cariche invece della drammaticità e del pathos che gli derivano da una sensibilità e una formazione tutte meridionali.
Marco Raviart, 29 october 1977
Non sono un critico d’arte, sono scrittore; come tale mi manca la consumata capacità di esaltare o stroncare o di dire il niente con centinaia di parole; posso semplicemente raccontare una trama minuta e delle impressioni. Dunque, il pomeriggio di questo maggio ’81 era inoltrato. Traffico folle fumoso colloso di questa Roma ’81. Dovevo comunque andare a vedere Guido. Un mezzo a disposizione mi restava . Gli autobus inzeppati, un taxi libero neanche a sognarlo, tutti ripieni alla crema, schizzanti oltre me. L’unico mezzo a mia disposizione: i piedi. Feci il Flaminio, Piazza del Popolo, incalzato dalla ressa, tamponato dai microfoni del comizio: un incubo. Alla fine camminai per via Margutta, fino all’83/A. L’incubo mio era finito; oltre la soglia dell’83/A c’era però l’incubo di Guido: la prima tela, anticipo delle altre in fila sui muri, alla personale di Guido Aloise. In questo incubo pittorico, Guido appare sconvolto e sereno al contempo; le figure incappucciate sui lati del salone dell’antico castello lo sospingono senza minimamente sfiorarlo, verso un’uscita, la liberazione che non è visibile ma esiste: va cercata sulle altre tele, sentiero dopo sentiero. Sono i dubbi, le angosce e, al centro di tutto, l’interrogativo su Dio e su Cristo. Il Figlio dell’Uomo è ritratto di profilo, di prospetto, di spalle, in croce e non. Ma è presente in Spirito dovunque: come nel dipinto della pesca: la miracolosa pesca evangelica in tono moderno, calamitante nelle sue positure anatomiche ed espressive. Il Cristo, sorgente di pace e di vita. Da questa sorgente scaturisce l’intera gamma delle suggestive coloriture, regolate da un pennello accortissimo che nel corso del pensoso, faticato ritrarre il mistero esistenziale può anche permettersi il vezzo di porre sulla tela le sembianze di dolcissime creature femminili: il pittore vi trova una fragile tregua. Al tramonto, esco dalla galleria e mi riesce di afferrare un bus. Scossoni, semafori inceppati e tutto il resto. Pazienza. Ero andato per vedere Guido e l’ho visto. Un artista calabrese che, stranamente, non dipinge la Calabria. Ha preferito la ben più vasta e fascinosa regione dell’animo umano: nel bene e nel male, nella gioia e nella tristezza.
Sepp D’Amore, 1981
Il viaggio nella pittura di Guido Aloise (1925-1986) ad analizzare i dati della sua vita può apparire divaricato. Da una parte il vivere quotidiano con la giovinezza perenne nel corpo e nello sguardo. Dall’altra l’inseguimento della pittura. Chi lo ha conosciuto, chi lo ricorda colloca la figura di Guido Aloise in bilico fra un uomo a cui premeva il gusto di vivere e un uomo a cui l’essere artista era il primario scopo di esistere. Per questa distrazione in alcune fasi della sua carriera di pittore il suo ritratto postumo non ha i connotati dell’uomo che soffre d’arte e, per contraccolpo, nemmeno i connotati dell’artista che ha deciso di sacrificare la corposità della vita alla presunta asceticità necessaria per fare arte. Questo inizio, per presentare la pittura di Guido Aloise in questo catalogo postumo, non ha intento di diminuzione. Al contrario. Si vorrebbe chiarire che ci troviamo dinanzi ad un pittore che non ha voluto spingere sino al fondo delle possibilità la sua vocazione e l’interesse per affermare il proprio lavoro. Non disincantato. Non disadattato alla vita dura tra gallerie e critica. Nemmeno disinteressato. Soltanto un uomo ed un artista di limpida lealtà, perché c’è anche la lealtà per calcolo, dinanzi ad una situazione culturale piena di dubbi e di trappole in cui si è sviluppata la sua esistenza di lavoro.
Giuseppe Selvaggi, 1989